Il mito della crescita

Vigletta crescitaSe il numero di coloro che si autoproducono lo yogurt crescesse in misura rilevante, diminuirebbe la domanda di yogurt prodotto industrialmente. Di conseguenza, le industrie del settore dovrebbero ridurre i loro addetti nonché gli ordini di vasetti di plastica, coperchietti di alluminio e cartoncini stampati per le confezioni. Le aziende che fabbricano questi prodotti dovrebbero a loro volta sfoltire il numero degli occupati e diminuirebbe anche il numero dei camion che portano su e giù per l’Italia gli yogurt, i vasetti di plastica, i coperchietti di alluminio e i cartoncini stampati. Toccherebbe allora alle aziende di logistica licenziare e ridurre gli ordini di carburante per autotrasporto.

L’eccesso di produzione si estenderebbe quindi alle raffinerie, che sarebbero costrette a licenziare e diminuire le importazioni di petrolio. Ci sarebbe infine una riduzione di plastica, alluminio e cartoncino nei rifiuti, per cui le aziende che li raccolgono e/o gestiscono le discariche e gli inceneritori vedrebbero diminuire i loro utili e sarebbero costrette a ridimensionare gli organici.

Ma le riduzioni di occupazione derivanti dalla diminuzione della domanda di yogurt non si fermerebbero qui, perché i disoccupati di questi settori, non avendo più un reddito monetario, farebbero diminuire la domanda di tutte le altre merci, innescando un processo di licenziamenti a catena. Ammesso che l’autoproduzione dello yogurt possa migliorare, in misura infinitesimale, la qualità della vita di chi la pratica, questo miglioramento avverrebbe al prezzo di un peggioramento totale della vita di tutti i licenziati che ne deriverebbero.

Il rapporto costi-benefici sarebbe disastroso.
Sembra che questo ragionamento non faccia una grinza. In realtà, se lo si analizza con attenzione, si vede che è la sintesi di tre presupposti, ritenuti talmente evidenti da non dover essere dimostrati:

1. l’identificazione del lavoro con l’occupazione, cioè con il lavoro salariato;

2. la convinzione che la crescita economica faccia crescere l’occupazione;

3. la convinzione che la decrescita economica faccia decrescere l’occupazione.

Nelle statistiche economiche la popolazione è divisa in due grandi categorie: le forze di lavoro e le non forze di lavoro. Le forze di lavoro sono a loro volta suddivise in due sottoinsiemi: gli occupati, cioè coloro che svolgono un’attività in cambio di un reddito monetario, e i disoccupati, cioè coloro che non hanno un’occupazione, ma la cercano.

Le non forze di lavoro non comprendono le categorie di persone che non hanno un’occupazione e non la cercano, o perché non sono ancora, o non sono più, in condizione di farlo [le fasce di età da 0 a 15 anni; le donne ultrasessantacinquenni e gli uomini ultrasettantenni], o perché non ne hanno bisogno [chi vive di rendita] o perché scelgono di non farlo [le casalinghe].

Chi lavora e chi non lavora

Se una persona produce direttamente la frutta e la verdura con cui si nutre la sua famiglia, non figura tra gli occupati, perché il suo lavoro non è svolto in cambio di un reddito monetario e non genera un reddito monetario, ma non figura nemmeno tra i disoccupati. Non fa parte delle forze di lavoro: non lavora. Sembra incredibile, ma è così. Chi produce frutta e verdura per il mercato, come coltivatore diretto, come imprenditore o come salariato agricolo, cioè svolge la stessa attività ma lo fa in cambio di denaro, è occupato e inserito nelle forze di lavoro.

Le casalinghe lavorano per un numero di ore almeno doppio rispetto a ogni occupato e il loro lavoro ha mediamente un’utilità maggiore, ma non è svolto in cambio di denaro e non genera reddito monetario, per cui non sono incluse nelle forze di lavoro: non lavorano. Chiunque svolga un’attività non remunerata non è occupato e non fa parte delle forze di lavoro.

Da dove derivano questi nonsensi a cui si dà valore scientifico? Dal fatto che i beni autoprodotti e i servizi autogestiti impediscono che il loro posto venga occupato da prodotti e servizi offerti in cambio di denaro. Ostacolano la crescita del Prodotto interno lordo.

Ogni bene autoprodotto e ogni servizio autogestito costituiscono un impedimento e un’alternativa a una merce, per cui un sistema fondato sulla crescita della produzione di merci non può non ridurne progressivamente l’incidenza e svalorizzarli culturalmente, utilizzando tutto l’apparato dei media per far credere che il passaggio dall’autoproduzione di un bene all’acquisto di una merce costituisca un progresso, dall’ironia sulla ristrettezza mentale di chi continua a spezzarsi la schiena per produrre pomodori che si possono comodamente comprare al supermercato fino alla «damnatio nominis»: le attività che producono beni per autoconsumo e servizi autogestiti non vengono inserite nelle statistiche economiche perché non sono lavori.

E non sono lavori perché non producono un reddito monetario. Sono il residuo di un mondo arcaico, tecnologicamente arretrato, timoroso dei cambiamenti, conservatore se non reazionario, incapace di apprezzare i vantaggi della modernità.

Per realizzare trasferimenti di massa dalla produzione di beni alla produzione di merci, veri e propri esodi biblici dall’autosufficienza economica alla dipendenza assoluta dal mercato, non è stato trascurato alcun mezzo.

All’inizio si è fatto ricorso alla violenza [nell’Inghilterra del Settecento la recinzione dei terreni agricoli e l’abolizione delle terre comuni per espellere i piccoli contadini dalla campagna e costringerli a trasferirsi in città, dove la legge puniva l’accattonaggio con la reclusione in fabbriche-carcere; l’introduzione delle tasse nei paesi coloniali per obbligare i nativi ad abbandonare la produzione di beni e costringerli alla produzione di merci: una trasformazione che, oltre a distruggere la loro cultura, distruggeva il loro ambiente, riducendo la ricchezza biologica della produzione agricola per autoconsumo alla monocultura agro-industriale].

Senza mai abbandonare la violenza e il controllo repressivo, sono poi stati sviluppati sistemi di persuasione di massa – cinema, radio, giornali, riviste, pubblicità, televisione – che hanno imposto come valori positivi e progressivi le norme di comportamento funzionali alla crescita economica: l’innovazione, la modernità, la scienza e la tecnologia, la ricchezza monetaria, il consumismo, l’identificazione del benessere con tanto avere anche quando genera malessere [le code di 200 chilometri in autostrada per andare dalle città-lavoro dove si producono le merci alle città-vacanza dove si spendono in merci i soldi guadagnati a produrle, ma questa follia collettiva fa crescere il Prodotto interno lordo].

Solo se si ritiene che questo sistema economico, in cui l’umanità è inserita da poco più di due secoli, sia, panglossianamente, il migliore dei sistemi possibili, l’occupazione si può identificare col lavoro e diventa un valore assoluto. Anche le fabbriche di armi creano occupazione, ma se il lavoro è l’attività con cui la specie umana migliora le sue condizioni di vita, la produzione di armi è una contraddizione in termini. Anche le fabbriche di mine che mutilano i bambini creano occupazione.

Eppure chi all’università ha studiato che i conti devono avere un «più» davanti sostiene l’esportazione di armi e se ne rallegra. Anche la droga crea occupazione e chi ne ricava reddito può accedere alla sfera delle merci lecite che altrimenti gli sarebbe preclusa, contribuendo con i suoi acquisti alla crescita del Prodotto interno lordo.

Ma, oltre a non essere un valore assoluto, l’occupazione non esaurisce nemmeno il concetto di lavoro. Non è tutto il lavoro possibile, ma soltanto la parte finalizzata alla produzione di merci, che acquista un ruolo totalizzante solo se non si è più capaci di produrre beni e la sopravvivenza dipende dall’acquisto di merci. Se invece si valorizza la dimensione dell’autoproduzione, più beni si autoproducono e meno merci occorre comprare, meno si ha bisogno di reddito monetario, anche se non si può pensare di farne a meno del tutto. Se un’economia che produce esclusivamente merci [nemmeno quella industriale, fortunatamente lo è] costituisce un’utopia negativa, anche un’economia che si proponesse di produrre esclusivamente beni sarebbe un’utopia negativa. Meglio un po’ e un po’, in dosi variabili in relazione alle circostanze storiche e ambientali.

La decrescita del prodotto interno lordo derivante dallo sviluppo dell’autoproduzione di beni può comportare un decremento dell’occupazione, ma non del lavoro, e compensa la diminuzione del reddito monetario con una minore necessità di acquistare merci. L’entità del reddito monetario di cui si ha bisogno per vivere è inversamente proporzionale alla quantità di beni che si autoproducono. Maggiore è la quantità di lavoro applicata alla produzione di beni, minore è la necessità di lavorare in cambio di un reddito monetario.

L’aumento dei beni autoprodotti non solo è in grado di sostituire la riduzione del potere d’acquisto di merci, ma, quel che più conta, costituisce un miglioramento qualitativo non altrimenti ottenibile. Se l’autoproduzione dello yogurt si diffondesse, i lavoratori del settore caseario potrebbero dedicare la riduzione del tempo di lavoro salariato che ne consegue ad autoprodursi pane e vegetali qualitativamente superiori a quelli che comprano, a dedicare più tempo ai propri figli o ai propri genitori invece di affidarli a pagamento ad estranei, a inventare un rapporto di coppia più bello, a sviluppare il loro sapere [approfondire la storia dell’arte, ascoltare musica, leggere la Divina Commedia] e il loro saper fare [il restauro dei mobili, le riparazioni, la manutenzione], a passare il tempo libero in modo meno costoso, più sano e creativo delle code di 200 chilometri in autostrada.

Meno produzione, meno occupati?

Tuttavia, non necessariamente la decrescita comporta una riduzione dell’occupazione. Anzi, se ben guidata politicamente [Élemire Zolla parlava di «recessione ben temperata»] in questa fase storica è l’unico modo per accrescere l’occupazione nei paesi industrializzati. Prima di vedere come ciò sia possibile, occorre ancora analizzare se, come generalmente si crede e viene ossessivamente ripetuto da politici, economisti, industriali, sindacalisti e giornalisti, la crescita economica sia indispensabile per far crescere l’occupazione.

I dati dell’Istat lo smentiscono. Dal 1960 al 1998 in Italia il Prodotto interno lordo a prezzi costanti si è più che triplicato, passando da 423.828 a 1.416.055 miliardi di lire [valori a prezzi 1990], la popolazione è cresciuta da 48.967.000 a 57.040.000 abitanti, con un incremento del 16,5 per cento, ma il numero degli occupati è rimasto costantemente intorno ai 20 milioni [erano 20.330.000 nel 1960 e 20.435.000 nel 1998]. Una crescita così rilevante non solo non ha fatto crescere l’occupazione in valori assoluti, ma l’ha fatta diminuire in percentuale, dal 41,5 al 35,8 della popolazione. Si è limitata a ridistribuirla tra i tre settori produttivi, spostandola prima dall’agricoltura all’industria e ai servizi, poi, a partire dagli anni settanta, anche dall’industria ai servizi.

Se la crescita del Prodotto interno lordo non crea occupazione, a maggior ragione si potrebbe pensare che non ne possa creare la decrescita. Se produrre più merci non ha richiesto più occupati, produrne di meno ne richiederà di meno. Ma è vero? Se si rispettasse la normativa in vigore [legge 10 del 1991], in Italia il riscaldamento degli edifici assorbirebbe 140 chilowattora al metro quadrato all’anno. In realtà se ne consumano molti di più. In Germania, dove fa più freddo, non si possono superare i 70 chilowattora al metro quadrato all’anno.

Lo stesso valore è stato imposto dalla Provincia di Bolzano. Ma in Germania e nella provincia di Bolzano ci sono imprenditori edili, professionisti e tecnici che costruiscono edifici con consumi energetici minori. I più efficienti mantengono una temperatura interna di 20 gradi centigradi con un consumo inferiore a 15 chilowattora al metro quadrato all’anno. Un decimo del limite massimo previsto dalla legge italiana.

Se al centro della politica economica nazionale si ponesse la ristrutturazione degli edifici esistenti per ridurre i loro consumi energetici agli standard vigenti in Germania, si risparmierebbe dalla metà ai due terzi delle fonti fossili attualmente utilizzate per il riscaldamento, che rappresentano circa un terzo di tutte le importazioni. In prospettiva questa scelta farebbe diminuire di circa il 20 per cento i consumi globali di fonti fossili, a parità di comfort termico.

La ristrutturazione del patrimonio edilizio comporterebbe pertanto sia una forte riduzione nei consumi di una merce che incide molto pesantemente sulla bilancia commerciale, e di conseguenza una riduzione significativa del Prodotto interno lordo, sia una forte crescita occupazionale nei settori tecnologici che accrescono l’efficienza energetica dell’edilizia. Questa decrescita farebbe crescere l’occupazione in quantità altrimenti non ottenibili. In pratica si attiverebbe un gigantesco trasferimento di denaro dall’acquisto di fonti fossili al pagamento di redditi monetari in lavori che diminuiscono le emissioni climalteranti e migliorano la qualità dell’aria. Oltre a essere quantitativamente rilevante, questa occupazione avrebbe anche straordinarie connotazioni qualitative, ben diverse rispetto all’esportazione di armi.

Prospettive analoghe possono essere aperte da tutte le innovazioni tecnologiche non finalizzate ad accrescere la produttività, ma a ridurre il consumo di risorse, l’inquinamento e i rifiuti a parità di produzione. Il riciclaggio dei rifiuti consente di ricavare materie prime secondarie e di risparmiare, quindi di ridurre i costi. Se si consumano meno materie prime e si spende di meno, il Prodotto interno lordo decresce, ma per ricavare risorse sostitutive dai rifiuti occorrono nuove professionalità e una maggiore occupazione che trasforma in redditi monetari i risparmi che consente di ottenere. […]

L’auto-produzione di energia

Un discorso a sé merita la micro-cogenerazione diffusa, perché assomma entrambi gli aspetti della decrescita: la sobrietà, in quanto comporta una riduzione dei consumi attraverso il recupero degli sprechi, e l’autoproduzione di energia per autoconsumo, un’autoproduzione innovativa che non consiste nel recupero delle potenzialità di futuro insite in tecnologie del passato frettolosamente abbandonate per obbedire agli imperativi della crescita [come l’autoproduzione agricola], ma nell’applicazione di questa logica economica pre-industriale a una tecnologia più avanzata di quella attualmente in uso nei grandi impianti.

Le stesse considerazioni valgono per tutte le energie rinnovabili che, per esprimere al meglio la loro efficienza e per ridurre al minimo i loro specifici impatti ambientali, devono essere di piccola taglia e tarate sull’autoproduzione per autoconsumo. Una centrale fotovoltaica ricopre di materiali inorganici enormi superfici, impedendovi lo svolgimento della fotosintesi clorofilliana, il modo in cui l’ecosistema terrestre assorbe la Co2 dall’atmosfera e la trasforma in energia. Un impianto fotovoltaico sul tetto di una casa occupa una superficie già ricoperta di materiale inorganico e non causa impatti ambientali.

L’energia prodotta da una centrale va trasportata a lunghe distanze e una parte si disperde lungo i fili di trasmissione. L’energia autoprodotta si utilizza nello stesso luogo in cui si produce e non va trasportata. Ciò premesso, l’esemplificazione di questo modello sulla micro-cogenerazione consente in primo luogo di fare un discorso immediatamente attuabile e non futuribile, in secondo luogo di effettuare un confronto con l’industria automobilistica di cui è la figlia ripudiata, ma non illegittima.

Un micro-cogeneratore è composto da un motore automobilistico, un alternatore e alcuni scambiatori di calore inseriti in una scatola di metallo insonorizzata. Il motore automobilistico fa girare l’alternatore, che produce energia elettrica. Mentre svolge questo lavoro, in cui l’energia chimica del combustibile si trasforma in energia meccanica con un rendimento di circa il 25 per cento, il motore sviluppa anche energia termica con un rendimento di circa il 70 per cento. Con una parte di questa energia termica, quella del radiatore, d’inverno si riscalda l’abitacolo delle automobili. Oltre al calore del radiatore, gli scambiatori dei micro-cogeneratori utilizzano anche l’energia termica dei gas di scarico [circa 700 gradi] e della coppa dell’olio per riscaldare l’acqua dei radiatori e dei sanitari. Se la loro potenza termica è tarata sul fabbisogno di calore, l’energia elettrica che producono è molto superiore alle esigenze della stessa utenza, per cui può essere ceduta in gran parte alla rete.

Per produrre la stessa energia elettrica in centrale e la stessa energia termica in una caldaia, occorrerebbe il doppio del combustibile. Ogni micro-cogeneratore dimezza quindi il consumo di fonti fossili a parità di servizi energetici. Determina una decrescita. Tuttavia, se si incentivasse un programma nazionale di sostituzione delle caldaie con micro-cogeneratori quanta occupazione si potrebbe creare? […] Ma c’è un elemento in più da considerare: la tecnologia per costruire i micro-cogeneratori è la stessa delle automobili. Soltanto che la produzione automobilistica ha più che saturato il mercato e da più di un decennio riduce costantemente il numero degli occupati. Inoltre le automobili circolanti contribuiscono a circa il 30 per cento delle emissioni di Co2, delle polveri sottili e dell’inquinamento atmosferico. Invece il mercato dei micro-cogeneratori è tutto da inventare, per cui ha enormi potenzialità di espansione e l’occupazione che si potrebbe creare in questo settore riconvertendo la produzione di una parte degli stabilimenti automobilistici, oltre che significativa, sarebbe di qualità, perché contribuirebbe a ridurre le emissioni di Co2 e l’inquinamento atmosferico.

Vogliamo togliercelo dalla testa questo mito della crescita? Vogliamo smetterla di demonizzare la decrescita?

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