Democrazia: il lavaggio dei cervelli in libertà

Buzzelli - da La guerra videologica

Buzzelli – da La guerra videologica

Cominciamo con la questione dei media. In Francia, nel maggio 2005, all’epoca del referendum sul trattato della Costituzione europea, la maggior parte degli organi di stampa sosteneva il «sì», e tuttavia il 55% dei francesi ha votato «no». Il potere di manipolazione dei media non sembra dunque assoluto. Quel voto rappresentava forse un «no» anche per i media?

Il lavoro sulla manipolazione mediatica o sulla fabbrica del consenso fatto da Edward Herman e da me non affronta la questione dell’influenza dei media sul pubblico (1). È un argomento complicato, ma le poche ricerche approfondite sul tema suggeriscono che, in realtà, questa influenza sia più forte sulla parte più istruita della popolazione. A livello di massa, l’opinione pubblica sembra, invece, meno dipendente dal discorso dei media.

(1) Edward Herman e Noam Chomsky, Manuacturing Consent, Pantheon, New York, 2002. La «fabbrica del consenso» è un’espressione del saggista americano Walter Lippmann, che, a partire dagli anni ’20, mettendo in dubbio la capacità dell ‘uomo comune di scegliere con saggezza, ha proposto che le élite erudite «bonificassero» l’informazione prima di farla giungere alle masse.

Prendiamo, ad esempio, l’eventualità di una guerra contro l’Iran: il 75% degli americani ritiene che gli Stati uniti dovrebbero cessare le minacce militari e privilegiare la ricerca di un accordo diplomatico. Varie inchieste condotte da istituti occidentali affermano che l’opinione pubblica iraniana e quella degli Stati uniti convergono anche su alcuni aspetti riguardanti la questione nucleare: la stragrande maggioranza della popolazione di entrambi i paesi pensa che la zona che si estende da Israele all’Iran dovrebbe essere interamente liberata dalle armi nucleari, comprese quelle in dotazione alle truppe americane della regione. Ora, per trovare questo tipo d’informazione nei media, bisogna cercare col lanternino.

Peraltro, nessuno dei principali partiti politici dei due paesi difende questo punto di vista. Se l’Iran e gli Stati uniti fossero autentiche democrazie, all’interno delle quali la maggioranza determina realmente le scelte politiche, l’attuale scontro sul nucleare sarebbe senza dubbio già risolto. Ci sono altri casi del genere.

Rispetto, ad esempio, al budget federale degli Stati uniti, la maggioranza degli americani auspica una riduzione delle spese militari e un aumento, invece, delle spese sociali, dei crediti versati alle Nazioni unite, dell’aiuto economico e umanitario intemazionale, e infine la cancellazione delle riduzioni di imposta decise dal presidente George W. Bush a favore dei contribuenti più ricchi.

Su tutti questi temi, la politica della Casa bianca è totalmente contraria alle richieste dell’opinione pubblica. Ma le inchieste che mostrano questa persistente opposizione pubblica raramente trovano spazio sui media. Cosicché i cittadini non solo sono allontanati dai centri di decisione politica, ma sono anche tenuti all’oscuro del reale stato d’animo dell’opinione pubblica.

A livello internazionale si registra preoccupazione per l’abissale «doppio deficit» degli Stati uniti: il deficit commerciale e quello di bilancio. Ma questi esistono solo in stretta relazione con un terzo deficit, quello democratico, che continua ad ampliarsi, non solo negli Stati uniti, ma più in generale in tutto il mondo occidentale.

Ogni volta che si chiede a un giornalista di grido o a qualche presentatore di un grande telegiornale se subisce pressioni, se gli capita di essere censurato, questi risponde che è assolutamente libero e che esprime le proprie convinzioni. Sappiamo come funziona il controllo del pensiero nelle dittature, ma come si attua in una società democratica?

Quando i giornalisti sono chiamati in causa, rispondono immediatamente: «Nessuno ha fatto pressione su di me, scrivo ciò che voglio». È vero. Solo che, se esprimessero opinioni contrarie alla posizione dominante, non scriverebbero più i loro editoriali. La regola non è assoluta, certo; capita anche a me di essere pubblicato dalla stampa americana, neppure gli Stati uniti sono infatti un paese totalitario. Ma chiunque non soddisfi certe esigenze minime non ha alcuna possibilità di entrare nel novero dei commentatori di primo piano.

D’altronde, questa è una delle grandi differenze tra il sistema di propaganda di uno stato totalitario e il modo di procedere delle società democratiche. Esagerando un po’, si può dire che nei paesi totalitari lo stato decide la linea da seguire e tutti devono poi conformarvisi. Le società democratiche operano in modo diverso. La «linea» non è mai enunciata come tale, è sottintesa. Si procede, in qualche modo, a un «lavaggio di cervelli in libertà». Ed anche i dibattiti «appassionati» nei grandi media si svolgono nel quadro dei parametri impliciti consentiti, tenendo al margine molti punti di vista contrari.

Il sistema di controllo delle società democratiche è molto efficace; insinua la linea direttrice come l’aria che si respira. Non ce ne accorgiamo, tanto che a volte ci sembra di assistere a un dibattito particolarmente vivace. In fondo, è infinitamente più efficace dei sistemi totalitari.

Prendiamo, per esempio, il caso della Germania all’inizio degli anni ’30. Si tende a dimenticarlo, ma allora era il paese più avanzato d’Europa, all’avanguardia io campo artistico, scientìfico, tecnico, nella letteratura e nella filosofìa. Poi, in un brevissimo lasso di tempo, si è prodotto un capovolgimento totale, e la Germania è diventata lo stato più sanguinario, più barbaro delia storia umana.

Tutto questo è stato possibile instillando la paura: paura dei bolscevichi, degli ebrei, degli americani, degli zingari, in breve, di tutti coloro che, secondo i nazisti, minacciavano il cuore della civiltà europea, cioè gli «eredi diretti della civiltà greca». In ogni caso, è quanto scriveva il filosofo Martin Heidegger nel 1935. Ora, la maggior parte dei media tedeschi che ha bombardato la popolazione con questo tipo di messaggi ha utilizzato le tecniche di marketing messe a punto… dai pubblicitari americani.

Non dimentichiamo che un’ideologia viene imposta sempre nello stesso modo. Per dominare, la violenza non basta, ci vuole una giustificazione di altra natura. Così, quando una persona esercita il suo potere su un’altra — che sia un dittatore, un colonialista, un burocrate, un marito o un padrone -, ha bisogno di un’ideologia giustìficatrice, sempre la stessa: la dominazione è fatta «per il bene» del dominato. In altri termini, il potere si presenta sempre come altruista, disinteressato, generoso.

Negli anni ’30, le regole della propaganda nazista consistevano, ad esempio, nello scegliere parole semplici e ripeterle in continuazione, associandole a emozioni, sentimenti, timori. Quando Hitler ha invaso i Sudeti [nel 1938], lo ha fatto invocando obiettivi estremamente nobili e caritatevoli: la necessità di un «intervento umanitario» per impedire la «pulizia etnica» dei germanofoni, e per far sì che tutti potessero vivere sotto l’«ala protettrice» della Germania, rassicurati dal sostegno della potenza più avanzata del mondo nel settore delle arti e della cultura.

In fatto di propaganda, se per certi versi niente è cambiato dal tempo degli antichi greci, ci sono stati comunque molti perfezionamenti. Gli strumenti si sono molto affinati, in particolare e paradossalmente nei paesi più liberi del mondo: il Regno unito e gli Stati uniti. È lì , e non altrove, che l’industria moderna delle relazioni pubbliche, come a dire la fabbrica dell’informazione, o la propaganda, è nata negli anni ’20.

Questi due paesi erano infatti molto avanzati in materia di diritti democratici (voto alle donne, libertà d’espressione, ecc.), a tal punto che l’aspirazione alla libertà non poteva più essere contenuta dalla sola violenza di stato. Ci si è dunque rivolti alte tecnologie della «fabbrica del consenso». L’industria delle relazioni pubbliche produce, nel vero senso della parola, consenso, accettazione, sottomissione. Controlla le idee, i pensieri, la mente. Rispetto al totalitarismo, è un grande progresso: è molto più gradevole subire una pubblicità che ritrovarsi in una camera di tortura.

Negli Stati uniti, la libertà di espressione è protetta a un livello che credo sconosciuto in qualsiasi altro paese del mondo. La norma è abbastanza recente. Negli anni ’60, la Corte suprema ha esteso molto il concetto di rispetto della libertà di parola, il che, a mio avviso, corrispondeva a un principio fondamentale presente già nel XVIII secolo tra i valori dell’illuminismo. La Corte ha stabilito che la parola è libera, con il solo limite dell’istigazione a un’azione criminale. Se, ad esempio, entro in un negozio con l’intenzione di svaligiarlo e, rivolgendomi a uno dei miei compiici armato, gli dico: «Spara!’», questa intimazione non è protetta dalla Costituzione. Per il resto, ci deve essere un motivo partìcolarmente grave per mettere in discussione la libertà di espressione. La Corte suprema ha riaffermato questo principio anche a favore dei membri del Ku Klux Klan.

In Francia, nel Regno unito e, mi sembra, nel resto d’Europa, la libertà di espressione è definita in maniera molto restrittiva. Secondo me, la questione fondamentale è: lo stato ha il diritto di decidere quale è la verità storica e di punire chi non è d’accordo? Pensarlo, vorrebbe dire accettare una pratica decisamente stalinista.

In Francia, ci sono degli intellettuali che hanno difficoltà ad ammettere che proprio questa è la loro tendenza. Ma il rifiuto di un tale approccio non deve ammettere eccezioni. Allo stato non dovrebbe essere concesso di punire chi sostenesse che il sole gira attorno alla terra. Il principio della libertà di espressione è estremamente elementare: o lo si difende nel caso di opinioni che si detestano, o non lo si difende affatto. Anche Hitler e Stalin ammettevano la libertà di espressione di chi condivideva il loro punto dì vista…

Aggiungo che c’è un qualcosa di deprimente e anche di scandaloso nel dover discutere di queste questioni due secoli dopo Voltaire, che, come è noto, diceva: Difenderò le mie opinioni fino alla morte, ma darò la vita perché possiate difendere le vostre. Ed è rendere un ben triste servizio alla memoria delle vittime dell’Olocausto adottare una delle dottrine fondamentali dei loro carnefici.

In uno dei suoi libri, lei commenta la frase di Milton Frìedman: «Fare profitti è l’essenza stessa della democrazia»…

In verità, le due cose sono tanto diametralmente opposte, che non c’è nemmeno un commento possibile… L’obiettivo della democrazia è che la gente possa decidere della propria vita e delle scelte politiche che la riguardano. La realizzazione di profitti è una patologia delle nostre società, cresciuta a ridosso di strutture particolari. In una società decente, etica, la preoccupazione del profitto sarebbe marginale. Prendete il mio dipartimento universitario [del Massachusetts Institute of Technology]: ci sono degli scienziati che lavorano sodo per guadagnare molti soldi, ma li si considera un po’ come marginali, gente disturbata, quasi dei casi patologici. Lo spirito che anima la comunità accademica è piuttosto quello di cercare di scoprire cose nuove, sia per interesse intellettuale che per ill bene di tutti.

Nell’opera che le è stata dedicata nelle edizioni de l’Herne, Jean Ziegler scrive: «Ci sono stati tre totalitarismi: il totalitarismo stalinista, nazista e ora c’è Tina (2).» Lei metterebbe a confronto questi tre totalitarismi?

(2) Tina, iniziali di «There is no alternative» («Non c’è altra soluzione»), frase con cui Margaret Thatcher riassumeva il carattere ineluttabile del capitalismo neoliberista, che è solo una delle forme possibili della «globalizzazione».

Non li metterei sullo stesso piano. Battersi contro «Tina» è un’impresa intellettuale che non si può paragonare né ai campi di concentramento né al gulag. E, nei fatti, la politica degli Stati uniti suscita un’opposizione massiccia su scala mondiale. L’Argentina e il Venezuela hanno buttato fuori il Fondo monetario internazionale (Fmi). Gli Stati uniti hanno dovuto rinunciare a quello che era la norma ancora venti o trent’anni fa: il colpo di stato militare in America latina. Il programma economico neoliberista, imposto con la forza a tutta l’America latina negli anni ’80 e ’90, è oggi rifiutato dall’intero continente. E su scala mondiale si ritrova la stessa opposizione contro la globalizzazione economica.

Il movimento per la giustizia, illuminato dai riflettori mediatici nel corso di ogni Forum sociale mondiale, lavora in realtà tutto l’anno. È un fenomeno storico nuovissimo, che segna forse l’inizio di una vera Internazionale. E il suo cavallo di battaglia più importante riguarda l’esistenza di una soluzione di ricambio. Peraltro, quale miglior esempio di globalizzazione alternativa del Forum sociale mondiale? I media ostili chiamano «antimondialista» chi si oppone alla globalizzazione neoliberista e lotta per un’altra globalizzazione, quella dei popoli.

Si può osservare la differenza tra gli uni e gli altri, perché, nello stesso periodo, si svolge, a Davos, il Forum economico mondiale, che lavora all’integrazione economica planetaria, ma nell’esclusivo interesse di finanzieri, banche e fondi pensione. Potenze che controllano anche i media. È la loro concezione dell ‘integrazione globale, ma al servizio degli investitori. I media dominanti ritengono questa integrazione l’unica che meriti, in qualche modo, l’appellativo ufficiale di globalizzazione.

Ecco un bell’esempio del funzionamento della propaganda ideologica nelle società democratiche. A tal punto efficace che anche alcuni dei partecipanti al Forum sociale mondiale accettano a volte la malevola qualifica di «antimondialisti». A Porto Alegre, sono intervenuto nel quadro del Forum, e ho partecipato alla Conferenza mondiale dei contadini. Rappresentano da soli la maggioranza della popolazione del pianeta…

Lei è catalogato tra gli anarchici o i socialisti libertari. Nella democrazia a cui lei aspira, quale sarebbe il ruolo dello stato?

Viviamo in questo mondo, non in un universo immaginario. In questo mondo, ci sono istituzioni tiranniche, sono le grandi imprese. È quanto c’è di più vicino alle istituzioni totalitarie. Non hanno, per così dire, alcun rendiconto da presentare al pubblico, alla società; si comportano come predatori le cui prede sono le altre imprese. Per difendersene, le popolazioni dispongono di un solo strumento: lo stato. Ma non è uno scudo molto efficace, perché, in genere, è strettamente legato ai predatori. Con una differenza, peraltro non trascurabile: mentre, ad esempio, la General Electric non deve rendere conto a nessuno, lo stato deve talvolta dare spiegazioni alla popolazione.

Quando la democrazia si sarà allargata al punto che i cittadini controlleranno i mezzi di produzione e di scambio, e parteciperanno al funzionamento e alla direzione del quadro generale nel quale vivono, allora lo stato potrà sparire poco a poco. Sarà sostituito da associazioni di volontari presenti sui luoghi di lavoro e là dove vive la gente.

Cioè i soviet?

Erano i soviet. Ma la prima cosa che Lenin e Trotski hanno distrutto, subito dopo la rivoluzione di Ottobre, sono stati i soviet, i consigli operai e tutte le istituzioni democratiche. Lenin e Trotski sono stati in questo caso i peggiori nemici del socialismo nel XX secolo. In quanto marxisti ortodossi, hanno ritenuto che una società arretrata come la Russia dell’epoca non potesse passare direttamente al socialismo senza prima essere immessa a forza nell’industrializzazione .

Nel 1989, al momento del crollo del sistema comunista, ho pensato che questo crollo rappresentasse, paradossalmente, una vittoria per il socialismo. Perché il socialismo così come lo concepisco implica, come minimo, lo ripeto, il controllo democratico della produzione, degli scambi e delle altre dimensioni dell’esistenza umana.

Tuttavia, i due principali sistemi di propaganda si sono accordati nel definire «socialismo» il sistema tirannico voluto da Lenin e Trotski, poi trasformato in mostruosità politica da Stalin. La classe dirigente occidentale non poteva che rallegrarsi per questo uso assurdo e scandaloso del termine, che le ha permesso per decenni di diffamare il socialismo autentico.

Con un entusiasmo identico, ma di senso contrario, il sistema di propaganda sovietico ha tentato di sfruttare a suo vantaggio la simpatìa e l’impegno che gli autentici ideali socialisti suscitavano in molti lavoratori.

Ma non è forse vero che tutte le forme di auto-organizzazione ispirate a principi anarchici sono alla fine fallite?

Non ci sono «principi anarchici» fissi, una sorta di catechismo libertario al quale si debba dichiarare fedeltà. L’anarchismo, almeno per come lo intendo io, è un movimento dell’azione e del pensiero umano che cerca di individuare le strutture di autorità e di dominazione, chiede loro di dare giustificazione di sé e, quando ne risultano incapaci, il che succede spesso, tenta di superarle.

Lungi dall’essere «crollato», l’anarchismo, il pensiero libertario, gode ottima salute. A lui si devono molti progressi reali. Forme di oppressione e d’ingiustizia che venivano a mala pena riconosciute, e ancor meno combattute, non sono più ammesse. È un successo, un progresso per tutto il genere umano, non un fallimento.

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