Eutanasia: contro la tortura di stato e di chiesa

George Grosz I funerali del poeta Oskar Panizza 1918, particolare.

George Grosz -I funerali del poeta Oskar Panizza -1918, particolare.

Ramón Sampedro

“La mia coscienza non è imprigionata nella deformità del mio corpo atrofizzato e insensibile ma nella deformità, atrofia e insensibilità della vostra coscienza”.

Con queste parole si chiude il messaggio pubblicato sotto, (trascrizione originale disponibile sul sito dell’Asociación derecho a morir dignamente) che Ramón Sampedro ha registrato prima di bere il cianuro che lo ha finalmente consegnato alla tanto desiderata morte, nel gennaio del 1998. La sua è storia è stata resa nota da una bellissimo film di Alejandro Amenàbar, Mare dentro. A 26 anni Ramón Sampedro si è schiantato su uno scoglio dopo un volo di 20 metri per un tuffo in mare mal calcolato.

E’ rimasto tetraplegico, paralizzato dal collo in giù.A 50 anni – dopo decenni di sofferenze e dolori – ha iniziato una lunga battaglia legale, durata cinque anni, per ottenere il diritto a morire serenamente. Prigioniero del proprio corpo, Ramón Sampedro non aveva neanche la libertà di suicidarsi. Chi l’avesse aiutato, sarebbe incorso nell’accusa di aiuto al suicidio, rischiando il carcere. Nella sua lunga battaglia, che lo ha condotto varie volte nelle aule dei tribunali spagnoli e sulle pagine dei giornali, Ramón Sampedro è stato sostenuto dalla Associazione spagnola per il diritto a morire degnamente.

Ma nessuna Corte ha autorizzato qualcuno ad aiutare Ramón Sampedro a porre fine alla sua tortura. A quel punto Ramón ha architettato un modo per realizzare il suo desiderio senza rischiare di far condannare qualcuno: undici diverse persone sono state coinvolte nel suo suicidio ma nessuna ha direttamente provocato la morte di Ramón. Una ha acquistato il cianuro, un’altra ha preparato la dose esatta, altre hanno portato il veleno nella stanza, altre ancora lo hanno sciolto in un bicchiere, un’altra ha poggiato il bicchiere sul comodino, un’altra ha messo dentro una cannuccia e l’ultima ha filmato gli ultimi istanti di vita di Ramón. Nessuno degli undici amici di Ramón è stato incriminato.

Signori giudici, autorità politiche e religiose,
dopo le immagini che avete appena visto – una persona che si prende cura di un corpo atrofizzato e deforme, il mio – io vi domando: che cosa significa per voi dignità? Qualunque sia la risposta delle vostre coscienze, per me la dignità non è questa condizione.

Questo non è vivere in modo dignitoso! Io, come alcuni giudici e la maggioranza delle persone che amano la vita e la libertà, penso che vivere sia un diritto, non un obbligo. Invece sono stato obbligato a sopportare questa situazione penosa per ventinove anni, quattro mesi e qualche giorno. Mi rifiuto di continuare così! Alcuni di voi si domanderanno: perche farla finita adesso – e in questo modo – se è illegale come ventinove anni fa?

Tra gli altri motivi, perché ventinove anni fa la libertà che oggi rivendico non era contemplata dalla legge. Oggi sì. Ed è quindi la vostra inerzia a obbligarmi a fare quello che sto facendo.
Sono passati quasi cinque anni da quando – nella mia istanza – vi ho posto la seguente domanda: la persona che mi aiuterà con l’eutanasia dovrà essere punita?
Secondo la Costituzione spagnola – e senza essere un esperto in materia giuridica – assolutamente NO.
Ma il tribunale competente – ossia la Corte costituzionale – si rifiuta di rispondere. I politici – i legislatori – rispondono indirettamente con un pasticcio giuridico nella riforma del codice penale. E i religiosi rendono grazie a Dio per questo.

Questa non è autorità etica o morale. E arroganza politica, paternalismo intollerante e fanatismo religioso.
Mi sono rivolto alla giustizia perché le mie azioni non avessero conse­ guenze penali per nessuno. Sono cinque anni che aspetto. E poiché questa inerzia suona come una beffa, ho deciso di mettere fine a tutto questo nel modo che considero più dignitoso, umano e razionale.

Come potete vedere, ho accanto un bicchiere d’acqua con una dose di cianuro di potassio. Quando l’avrò bevuto avrò rinunciato – volontariamente – alla proprietà più legittima e privata che possieda: il mio corpo. E mi sarò anche liberato di una schiavitù umiliante – la tetraplegia.
Voi chiamate questo atto di libertà – con assistenza – concorso in suicidio, o suicidio assistito.
Io invece lo considero un aiuto necessario – e umano – per essere padrone e sovrano dell’unica cosa che l’essere umano può chiamare veramente «sua», ossia il corpo e ciò che a esso è legato: la vita e la sua consapevolezza.

Voi potete punire il prossimo che mi ha amato ed è stato coerente con quell’amore, che cioè mi ha amato come ama se stesso. Naturalmente per farlo ha dovuto vincere il terrore psicologico della vostra vendetta – questo è il suo unico crimine. Oltre ad avere accettato il dovere morale di fare ciò che deve, ossia ciò che di meno interessato e più doloroso ci sia.
Sì, voi potete punire, ma sapete che è una semplice vendetta – legale ma non legittima. Voi sapete che è un’ingiustizia, perché non avete il minimo dubbio che l’unico responsabile delle mie azioni sia io e soltanto io.

Tuttavia, se malgrado le mie ragioni decideste di infliggere una punizione esemplare, io vi consiglio – e vi prego – di fare ciò che è giusto: taglia­te a chi mi ha aiutato braccia e gambe, perché quelle sono le parti della sua persona di cui ho avuto bisogno. La coscienza era la mia. Quindi miei sono stati il gesto e l’intenzione di quanto accaduto.
Signori giudici, negare la proprietà privata del nostro essere è la più grande delle menzogne culturali. Per una cultura che ritiene sacra la proprietà privata delle cose – tra cui la terra e l’acqua – è un’aberrazione negare la proprietà più privata di tutte, la nostra Patria e il nostro Regno personali. Il nostro corpo, la vita, la coscienza. Il nostro Universo. […]

Signori giudici, autorità politiche e religiose,
la mia coscienza non è intrappolata nella deformità del mio corpo atrofizzato e insensibile, ma nella deformità, atrofia e insensibilità delle vostre coscienze.
Ramón Sampedro

Jorge León

Ho bisogno della mano che sostiene il bicchiere, la mano abile che supplisca alla mia mano inutile, una mano che agisca secondo la mia volontà ancora libera: ho preparato tutto in modo che chi mi aiuta resti in incognito.

Questo appello è stato lanciato da Jorge Leon Escuderò, pentaplegico di 53 anni, sul suo blog, il 21 marzo 2005. E la «mano abile» è arrivata: il 4 maggio Jorge è stato trovato morto nella sua casa a Valladolid. in Spagna, staccato dal respiratore e con a fianco un bicchiere e una cannuccia. L’autopsia ha confermato che è morto per avvelenamento da cianuro, come nel caso di Ramón Sampedro. Jorge era diventato pentaplegico a causa di un incidente domestico nel 2000.

Era completamente paralizzato e incapace di respirare autonomamente. Riusciva a muovere solo la bocca e così, grazie ad un apposito congegno, riusciva a scrivere al computer. Nel 2005 aveva aperto un blog (di cui alcune parti vengono riportate sotto; il blog, intitolato «Distillati pentaplegici» è ancora online all’indirizzo http://www.destiladospentaplejicos.blogspot.com) firmato con lo pseudonimo Luca S., in cui ha raccontato, con grande lucidità e con fredda dovizia di particolari, le sue sofferenze e da cui ha lanciato la richiesta di aiuto per porre fine a quella che considerava ormai una tortura.

L’Associazione spagnola per il diritto a morire degnamente (la stessa che aveva sostenuto Ramón Sampedro) ha ammesso di aver fornito informazioni tecniche a Jorge Leon per porre fine alla sua vita ma la «mano abile» che lo ha direttamente aiutato non è stata individuata e il caso è stato archiviato.

Dal Blog DESTILADOS PENTAPLÉJICOS

Fate attenzione voi che vi addentrate in queste annotazioni con spirito innocente e ancora appesantito dalla zavorra dei buoni sentimenti. In questo angolo non troverete la forza per andare avanti e nemmeno dolci consolazioni. Offro soltanto riflessioni scarne senza speranza, con la freddezza della ragione padrona del suo destino che conduce inesorabilmente verso la morte, quando c’è speranza perdiamo la possibilità di pensare razionalmente e affrontare la nostra morte liberi e senza paura.

Giovedì 4 agosto 2005

Eutanasia significa buona morte. Niente di più, niente di meno.
Buona morte per l’essere umano significa soprattutto morte dignitosa, una morte conforme alla nostra condizione di esseri razionali liberi e dunque padroni di decidere le circostanze in cui morire, il dove, il come e il quando, specialmente se il nostro corpo, più morto che vivo, non può adempiere al proprio compito di eseguire quello che la volontà dispone.

Buona morte, se si è in uno stato di incoscienza, significa morire come uno avrebbe desiderato. Meglio se specificato per iscritto. Bisognerebbe aiutare a vincere la pigrizia di affrontare la burocrazia, snellendola con una procedura semplice: un testo in cui i desideri a questo riguardo non trovino restrizioni né punti oscuri, ma ogni particolare sia invece previsto in modo inequivocabile. Mi viene in mente il ruolo che potrebbero avere i nostri medici «di famiglia», se fossero loro a incoraggiare i pazienti a formalizzare il proprio «testamento biologico».

Cacotanasia, al contrario, è morire con dolore perché non si ha uno specialista che abbia i mezzi per evitarlo, che sia disposto ad accorciare non la vita, per carità!, ma una drammatica agonia in cui la morte domina ormai la situazione.
Cacotanasia è lasciare che un corpo, in stato vegetativo ma in certa misura ancora sensibile (i vegetali hanno la loro sensibilità), si consumi da sé, quando si può ridurre il tempo di deterioramento.

Cacotanasia è dover prendere clandestinamente il cianuro da una mano che rischia il carcere, come minimo.
Come può un’agonia indesiderata nobilitare una persona? Dov’è l’esercizio della ragione, attaccata e assediata da gravi sofferenze, magari colpita da deficit fisiologici che possono ridurla a niente? Che integrità etica si può mantenere con un’esistenza che tende ai livelli più elementari – animali – di sopravvivenza?
Finché l’eutanasia non sarà regolamentata si continueranno a verificare cacotanasie inutili, dolorose, contro la volontà di chi le deve sopportare.

Mercoledì 7 settembre 2005. Non voglio dimenticare. Non mi rassegno

Non voglio dimenticare quel che sono stato per sapere quel che sono adesso e per prevedere, per quanto possibile, che cosa sarà di me. Non voglio dimenticare quel che sono stato per non ingannarmi con quel che sono adesso e per evitare di diventare quel che non ho mai desiderato. Non voglio amputare il mio passato e perdere la mia persona per rifugiarmi in un presente conformista capace di accettare, per mero istinto di sopravvivenza, qualsiasi schiavitù.

Voglio ricordarmi di che cosa mi vedo privato dopo l’incidente, che cosa continuo a desiderare e che cos’era ciò che ritenevo cosi fondamentale nella vita da non avere più alcuno scopo senza di esso.

Rievoco eventi colmi di piacere e di senso, progetti che davano la prospettiva di un futuro con un valore, senza dimenticare il contrappunto delle miserie.

Difficilmente sopporterei di dover rinunciare a visitare tutti quei luoghi inesplorati, che nessuno conosce, quelli che sembrano offrire qualcosa di nuovo e importante, o di non poter tornare in quelli che ti offrono sempre qualcosa da riscoprire.

E molto difficilmente sopporterei di non poter più salire su quelle creste solitarie, sedermi con i piedi penzoloni nel vuoto sopra le nuvole e contemplare valli e montagne fin dove lo sguardo si perde senza il minimo segno di vita umana.

E nemmeno penetrare nelle viscere della terra dove si può trovare il non­io dietro l’io più profondo, nella sua più completa solitudine, oscurità e silenzio.

E quindi molto duro vedermi privato senza rimedio, né surrogati, degli stati mentali unici, propri dell’essere umano, che queste situazioni generano, perché facilmente ci mettono in modalità di comprensione della realtà penetranti, lucide e impossibili nella vita quotidiana.

Aggiungerei ora alle cose insopportabili l’assenza di braccia e mani, estrema crudeltà per una persona per cui sono state un’immensa fonte di piacere e di realizzazioni, per cui nelle aspettative future continuavano ad avere un ruolo fondamentale. Al di là del piano sensoriale, erano la connessione tra il cervello e l’esterno. La memoria ne è danneggiata e la scrittura non può più riflettere il pensiero in modo fluido e sufficiente.

Ed è tremendamente penoso constatare che il corpo è una spoglia incapace di provare piacere ma capace di provare dolore. E’ estremamente doloroso che le mie mani non mi trasmettano la materia di quella carne che accarezza con decisione: è estremamente doloroso non poter tornare a sentire sul mio pene pieno di sangue ardente l’umido contatto di labbra desiderose; aver perduto la capacità dello scambio dei corpi attraverso il quale due persone entrano in un’intensa comunione erotica e non poter tornare a dissolvermi in quelle esplosioni di godimento, e riceverle. (Che potente impronta chimica, l’orgasmo).

Non mi rassegno a vivere così, se non ho nemmeno le forze per tuffarmi in un’intensa lettura e devo patire l’impotenza di cercare invano in Internet quel testo che mi serve per confrontarlo con un altro, oppure una poesia, un passo, un’informazione. Un giorno dopo l’altro, consapevole che non c’è alternativa, che non potrò più studiare niente a fondo e quindi nemmeno scrivere altro, se non appunti sullo stato in cui mi trovo.

E naturalmente, non più in grado di confrontarmi con l’arte e la musica. Il cinema non mi appaga, neppure quando è di qualità, come non mi appagano lo sport, la corrida, i dibattiti in televisione, le visite sterili, né qualsiasi altra forma di distrazione, svago o banale passatempo con cui di solito si inganna la solitudine.E alla fine, incapace di fare alcunché, ridotta la vita creativa, quella propriamente umana, a pochissimi lavori al computer e alla denuncia di questa crudele assurdità, preferisco morire con dignità.

Tutte quelle cose mi nutrivano e producevano l’energia necessaria per dare e per fare. Adesso posso solo ricevere, e non essendomi voluto isolare sotto una campana di vetro e rimanere passivo a spese di altri, la vita quotidiana fa in modo di ricordarmi costantemente le mie limitazioni, spesso con crudeltà, e subisco quelle di chi mi sta intorno, quelle della gente in generale, quelle particolarmente estenuanti della burocrazia, dell’amministrazione, quelle della realtà del nostro mondo. E tutto que­ sto, lungi dal darmi energia, mi consuma dolorosamente come l’opera insidiosa della carta vetrata, lasciandomi privo di forze e senza più voglia di andare avanti così.

Rifiuto di prendere ansiolitici e antidepressivi, cattivi surrogati di una presunta normalità. Superflui quando si conosce la causa dei conflitti e si agisce di conseguenza.

E più di ogni altra cosa rifiuterei che la mia vita dovesse dipendere dal sacrificio di un’altra vita. Che ognuno faccia della propria vita/morte quello che vuole, tranne farla entrare a forza in quella degli altri contro la loro volontà. E si sbaglierebbe di grosso chi vedesse in tutto questo un comportamen to morboso o un godimento nella disgrazia. E esattamente questo che cerco di evitare.

Lunedì 12 dicembre 2005. Appunti per il prossimo

Anzi, per i prossimi, perché adesso il prossimo sembra sia solo il bisognoso che quando meno te lo aspetti ti chiede qualcosa, e quelli più stanno lontani e meglio è, che sono tanti.

Quando, senza più speranze, le complicazioni fisiche e psichiche si fanno insopportabili, c’è pace solo se spunta la possibilità di porre fine secondo la propria volontà al resto di vita torturata che rimane. Quale persona in possesso delle proprie facoltà mentali vorrebbe prolungare un’esistenza così miserevole? Quale persona di buon cuore vorrebbe che continuiamo a soffrire senza motivo?

Voglio che capiscano bene le creature ingenue e benintenzionate, siano familiari, amanti, amici, compagni o semplici vicini: guardatevi dal creare aspettative senza fondamento, suscitare desideri impossibili da soddisfare o generare angosce; allontanatevi da noi con serenità, con la coscienza a posto se non potete – e non si vede come potreste – darci soddisfazioni concrete, senza prospettive né contropartite, oppure decidetevi ad aiutarci a morire bene.

(Ah, arrivati a questo punto potremo vedere di che pasta sono fatti, la loro capacità di rendere migliore l’ambiente in cui si muovono, fin dove arriva la loro arte di vivere. Ma non preoccupatevi, io almeno sarò discreto, non racconterò a nessuno – dovesse venir fuori – il vostro egoismo, la miseria delle vostre vite, perché, a parte che è normale, molto probabilmente non avrò nessuno a cui dirlo; se dovete abbandonarmi alla mia sorte, sappiate che forse anch’io farei lo stesso.)

So che siamo bravissimi a convincere madri dal futuro solitario che la loro vita ha un senso, o a dare un senso a vite che si credono vuote. Ma non sarebbe bello che faceste pressioni su di noi, ci illudeste, ci ingannaste! Tanto più se non lo desideriamo, se preferiamo farla finita il prima pos­ sibile. Non è onesto sopperire alle nostre carenze con la vita di altri quando non possiamo contribuire con niente di utile.

E’ possibile che sentiremo affermazioni come: «Se te ne vai è perché sei un egoista e non pensi ai sentimenti di chi ti vuole bene». E possibile che arriveranno a dirci: «Se ti uccidi, uccidi me». E’ il colmo. Invece di aiutarci, ci abbattono. Questi ricatti emotivi dovrebbero essere puniti per legge. Se è già difficile affrontare la morte, non rendeteci le cose ancora più complicate facendoci pensare a voi che piangete disperati giorno e notte. Dato che l’eutanasia è severamente punita dall’ingiustizia, preparare la nostra fine senza poter contare sul loro attento affetto conservazionista richiede una minima dose di autonomia. Se non ce la procurano in quanto nostro diritto fondamentale – che dovrebbe essere garantito senza bisogno di chiedere – che almeno non ficchino il naso in quella che magari è una questione privata.

È evidente, non si sforzano molto per mettersi ai nostro posto. Magari non vogliono mettersi al nostro posto perché, ovviamente… Chi vorrebbe essere al nostro posto?

Anche perché è davvero difficile farlo, sperimentare il livello di impotenza a cui si arriva quando, di fronte a un’avversità, non possiamo reagire, nemmeno muoverci, o accavallare le gambe, stringere un pugno, inspirare e trattenere l’aria. Tutto il veleno del malessere, dell’indignazione, della rabbia, molto spesso, si accumula dentro, macerandoci, pulsando maligno nel cervello. No, non è facile provare tanta frustrazione. Ma almeno, credeteci se vi diciamo che è atroce.

Solo la certezza di avere il controllo sui dettagli della nostra morte ci da la forza per sopportare con la minima sofferenza il tempo che resta.

Eventualità tremenda: faccio una telefonata compromettente con un auricolare a un numero che mi devono comporre e che non sanno cancellare: poi, qualcuno vede il numero e lo copia nella sua agenda per confrontarlo con altri, «per curiosità», senza sapere che questo numero potrebbe diventare sospetto e l’agenda essere ispezionata cacciando il malcapitato in grossi guai, anche in prigione – in rovina – e potrebbe essere il mio migliore amico, un amante segreto, la persona che ha osato mettermi un bicchiere letale dove io potessi berlo o – ancora peggio – un altro sospetto non implicato ma non in grado di dimostrarlo.

Martedì 21 marzo 2006

Mi scrive Jorge León (ricordiamo che il blog è firmato con lo pseudonimo Luca S.):
Sono entrato in una fase che considero terminale perché alla pentaplegia irreversibile si è aggiunta la cronicità delle infezioni dovuta a una tolleranza sempre minore agli antibiotici, il che mi provoca sofferenze fisiche e psichiche indesiderabili. E tutto ciò in un contesto assistenziale diventato insostenibile. Di fronte alla prospettiva di finire entro breve in una clinica dove mi abbandonerò a una morte miserevole, lancio il seguente messaggio nel caso la sorte per una volta si rivelasse generosa.

Voglio dirlo ormai chiaramente e chiedere, se fosse naturalmente possibile e con tutte le precauzioni dovute, un aiuto diretto, indiretto, o contatti… Voglio anche che ai fini legali ne rimanga testimonianza: non ha senso continuare in questo stato per me così penoso e senza altre prospettive che il continuo peggioramento, bisogna arrivare a una conclusione e con una certa urgenza.

Ho bisogno della mano che sostenga il bicchiere, la mano abile che supplisca alla mia mano inutile, una mano che agisca secondo la mia volontà ancora libera: ho disposto tutto in modo che chi mi aiuterà rimanga ignoto.
Che a nessuno venga in mente di rispondere per e-mail.
Domande e contatti da un telefono pubblico o sicuro al [segue numero di telefono], o per posta [segue indirizzo].

Venerdì 28 aprile 2006. Prima esperienza con la morfina

Verso la fine della mattinata un momento di insopportabile dolore alle gambe – sì, avete letto bene – mi porta alla morfina. Dopo un quarto d’ora, mentre sparisce il dolore, sono vinto dal sonno; a letto, inappetente, mangio appena e lo sforzo di parlare mi fa venire la nausea. Mi sveglio due ore dopo, con il capogiro ogni volta che tento di concentrarmi e con la stessa incapacità di parlare, pur senza conati di vomito.

Nel pomeriggio, mi alzo e cerco di scrivere qualcosa ma faccio molta fatica e il risultato non è dei migliori, annullo una visita gradita perché in questo stato sarebbe desolante; non riesco nemmeno a leggere, solo sonnecchiare in silenzio. Però c’è poco muco, meno male perché deglutire mi fa terribilmente male. A cena non mangio quasi niente, ho ancora la nausea, e alla fine mi addormento che sto ancora male dopo dodici ore infernali.

Adesso credo di capire bene cosa significhi trovarsi costretto a scegliere tra il male e il peggio. Insisto, arrivati a questo punto è molto probabile che la testa, da sola o per effetto dei farmaci, non sia in completo possesso delle proprie facoltà e si lasci guidare dai meccanismi di difesa a tutti i costì.
Nel mio caso preferisco morire finché ho il controllo sulla mia testa piuttosto che arrivare a certi stati di sofferenza irreversibili senza la capacità di decidere liberamente.

Depressione: così si chiama, per pigrizia mentale o rifiuto della verità, lo stato mentale privo di illusioni.
Depressione: stato in cui vengono meno i meccanismi biologici che ci fanno credere che la vita valga la pena di essere vissuta. E per gli amanti delle classificazioni innovative:
Depressione maniacale: situazione eccezionale in cui si assume con umorismo che non vale la pena di vivere la propria vita.

Intenzioni – fatti.
Le buone intenzioni senza soluzioni reali degenerano e finiscono per fare ancora più danni.
Buone intenzioni senza buone soluzioni, più complicazioni e pessimi risultati.

[Questo è l’ultimo post, inviato da Jorge Leon pochi giorni prima di morire.]

Martedì 2 maggio 2006: cuando llegan los días señalaitos*
(* “quando arrivano i giorni propizi”, testo di “Gitano de temporá”, una canzone di Raimundo Amador.)

Sono così poche le persone coerenti. In momenti come questi, che richiedono solidità e sangue freddo, dipendere dalle contingenze umane è avvilente, e la cosa peggiore è che di solito finiscono per mandare al diavolo qualsiasi possibilità dignitosa.

È eccessivo considerare che siamo esseri umani quando la nostra parte non animale, che chiamiamo razionale o umana, è così scarsa e debole. Cediamo così poco nelle questioni fondamentali, altrimenti come potrebbe esistere una società così disastrosa come quella che ci ritroviamo.

L’immane capacità di non vedere la disgrazia in noi e intorno a noi e di dimenticare il male ci impedisce di muoverci secondo ragione e così avanziamo distruggendo.
Quante cose abbiamo imparato a mandar giù in questi tempi di discutibile benessere; mandiamo giù – quelli di noi che lo possono fare – i dolci bocconi del consumo, senza volerci accorgere di come complichiamo così la vita a noi e magari agli altri mentre facciamo a pezzi la nostra gallina dalle uova d’oro globale; mandiamo giù con piccoli ritagli quotidiani di tempo, di diritti, di intimità, di semplicità, di qualità… sino a condurre vite alienate che consumano tutto il nostro tempo.

Il tempo libero è pieno di pubblicità che sondano la nostra predisposizione a determinate forme di evasione; anche il ritorno alla natura è ostacolato da derive verso il turismo, l’avventura, l’ecologia della domenica eccetera. Il tempo libero non è mai associato alla riflessione solitaria, allo studio e all’introspezione individuale. Ricordiamo la nascita della filosofia come esercizio di oziosi benestanti solitari che si interrogavano con rigore logico e perseveranza sull’essere, l’origine, lo scopo e il senso della vita – la fame e l’ansia di miglioramento non vanno d’accordo con la libera speculazione. Adesso prendiamo dalla scienza quello che più ci conviene e ci accontentiamo della consapevolezza di sapere che già sappiamo, ma cosa significhi riflettere senza paura, pregiudizi e preterintenzionalità…
E non c’è bisogno di frugare ulteriormente, a buon intenditor…

Non dovrei essere qui; diciamo che una nuova «contingenza umana» ha frustrato ancora una volta la possibilità di mettere fine a tutto questo, proprio quando il resto delle circostanze erano idonee e la mia predisposizione forte. Costretto a ingoiare tanti bocconi amari, mi riesce difficile digerirlo. Rimango in possesso delle mie facoltà mentali solo perché mi rimane ancora qualche manovra delicata da compiere e ho la responsabilità di non danneggiare nessuno.
Di fronte alla morte il problema non è più il morire in sé ma come morire, il famoso «trapasso».

Sarà forse un fatto genetico, senza dubbio culturale, ma sicuramente a quasi tutti è capitato, per vari motivi, che in un luogo primitivo del cervello gli arrivassero segnali di pericolo di morte imminente. Abbiamo potenti meccanismi che ci fanno percepire con un senso di forte angoscia situazioni potenzialmente letali come il soffocamento, le alterazioni della pressione, le vertigini, il dolore al cuore ecc, e reagiamo di riflesso con un rifiuto netto. Pensare alla morte ci mette fifa e al suo cospetto proviamo forse una paura incontrollabile.

Con queste limitazioni, diventa molto difficile farla finita senza la garanzia di non soffrire. Che il peso delle sofferenze inutili rimanga nella coscienza di chi ostacola la legalizzazione dell’eutanasia.
Quando noi siamo la morte cessiamo già di essere, e se non siamo nemmeno la morte esiste (o forse lo spazio ha coscienza della morte o di qualunque altra cosa?).

Piergiorgio Welby

Il 20 dicembre 2006, Piergiorgio Welby, tramite il dottor Mario Riccio che dopo averlo sedato ha staccato il suo respiratore, ha potuto veder rispettata la sua volontà: porre fine alla tortura.

Alla richiesta di funerali religiosi per il marito, avanzata dalla moglie Mina, il Vicariato di Roma rispose con il comunicato stampa:

In merito alla richiesta di esequie ecclesiastiche per il defunto Dott. Piergiorgio Welby, il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie perché, a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del Dott. Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica (vedi il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2276-2283; 2324-2325).

Nel gennaio 2007, il cardinale Ruini, presidente della Cei, davanti al Consiglio permanente dei vescovi, torna sull’argomento:

Una vicenda umana dolorosa, che ha coinvolto a lungo la nostra gente è stata quella di Piergiorgio Welby. Essa mi ha chiamato in causa anche personalmente, quando è giunta la richiesta del funerale religioso dopo la sua morte. La sofferta decisione di non concederlo nasce dal fatto che il defunto, fino alla fine, ha perseverato lucidamente e consapevolmente nella volontà di porre termine alla propria vita: in quelle condizioni una decisione diversa sarebbe stata infatti per la Chiesa impossibile e contraddittoria, perchè avrebbe legittimato un atteggiamento contrario alla legge di Dio. Nel prendere una tale decisione non è mancata la consapevolezza di arrecare purtroppo dolore e turbamento ai familiari e a tante altre persone, anche credenti, mosse da sentimenti di umana pietà e solidarietà verso chi soffre, sebbene forse meno consapevoli del valore di ogni vita umana, di cui nemmeno la persona del malato può disporre. Soprattutto ci ha confortato la fiducia che il Dio ricco di misericordia non solo è l’unico a conoscere fino in fondo il cuore di ogni uomo, ma è anche Colui che in questo cuore agisce direttamente e dal di dentro, e può cambiarlo e convertirlo anche nell’istante della morte.

Ruttar nelle Sagrestie invoca l’eutanasia per le parole malate di Camillo Ruini e di quelli come lui che, in nome di dio, dello stato o di qualunque cinismo ipocrita, vorrebbero imporre il proprio arbitrario volere su cose di cui, ogni individuo che si voglia definire libero, deve pretendere piena e assoluta sovranità: il proprio corpo e la propria mente.

Con la sua generosissima battaglia civile, Piergiorgio Welby,  ha lottato in Italia contro il vuoto ipocrita dei sepolcri imbiancati della politica e della chiesa.

Riportiamo sotto alcune sue parole tratte dal libro Lasciatemi morire , dal suo blog www.calibano.ilcannocchiale.it e la lettera inviata al presidente della repubblica nel settembre 2006.

11 giugno 2002

Dio non mi ha mai ascoltato, mai. Nemmeno quando mio padre, distrutto dal tumore alla laringe, tentava di respirare ma i suoi sforzi si concludevano in un rantolo strozzato che nemmeno il cortisone riusciva più a calmare. E avevo chiesto a Dio di far cessare quel tormento, avevo implorato piangendo: «Dio fallo morire, fallo morire adesso». Che senso aveva quell’agonia?
Possibile che nessuno potesse far qualcosa per farla cessare? Mi ero chiesto, angosciato, se non esistesse un limite a quello che un uomo deve sopportare, ma neppure i medici mi avevano saputo rispondere. Il loro lavoro era quello di mantenere in vita chiunque il più a lungo possibile.

Anche Dio non mi aveva risposto, era rimasto chiuso nelle chiese, protetto nei conventi, aveva fatto lacrimare qualche Madonnina di gesso e aveva lasciato che i medici continuassero a portare avanti quell’assurdità.
Nemmeno la mia cagna aveva sofferto tanto. Quando il veterinario le aveva diagnosticato un tumore all’utero, le perdite di sangue erano diventate più copiose e aveva cominciato a rifiutare il cibo, le aveva fatto un’iniezione al torace, all’altezza del cuore e Diana era rimasta accoccolata tra le mie braccia, fino a quando un velo lattiginoso le aveva spento per sempre l’ambra dorata degli occhi.

«È morta, la lasci pure.»

La morte poteva anche non essere una cosa tanto terribile. Bastava impedirle di distruggere, in poco tempo, tutta una vita.

5 dicembre 2002

Una mattina di metà novembre risalivamo un canalone spazzato dalla tramontana. Il terreno ghiacciato scricchiolava a ogni passo, il vento gelido faceva lacrimare gli occhi e le mani erano rattrappite sul fucile, e stavo pensando a quei paesaggi fiamminghi di Rubens. Quando un fischio di mio padre mi riportò alla realtà. Diana era in ferma. Ci spostammo cautamente, cercando la posizione migliore. poi un frullo e due coppie di starne volarono da sotto il muso del cane. Mio padre abbatté in rapida successione la coppia che aveva piegato dalla sua parte. Io colpii la prima ma non riuscii a sparare alla seconda.

«Perché non hai sparato?»

«Non ho potuto muovere il dito.»

«Sarà il freddo.»

«No papà. È la distrofia.»

Mi prese la mano tra le sue e la frizionò con forza.

«Papà, sparami! Voglio morire in piedi e con il sole negli occhi. Non paralizzato in un letto.»

«Piero, questo non puoi chiedermelo. Tutto ma non questo.»

«Se non posso chiederlo a te a chi dovrei chiederlo?»

Mi abbracciò e disse: «Ti prometto che non morirai paralizzato in un letto».

Provai una sensazione indefinibile, una pace, una tranquilla serenità. Non avevo più paura del futuro!

Mio padre prese il pacchetto color ocra delle Aurora e mi passò la sigaretta accesa. Ci guardammo negli occhi.

«Hai visto la rimessa?»

«Sì, papà. S’è posata tra le ginestre giù nella piana.»
Perché chiesi a mio padre di uccidermi? Forse lo ritenevo responsabile del mio dramma e volevo punirlo o, forse, quello che cercavo era un gesto d’amore assoluto che andasse oltre l’immaginabile. O volevo solo legarlo al mio destino. Perché ad Alfredo e Piero non fu riservata la stessa sorte di Antonio e Alessandro?

Il caso, solo il caso. Complice il cielo azzurro, una sigaretta, lo sguardo di un cane. e una starna da ribattere. L’uomo saggio vive finché deve. Alla fine di febbraio 2006 sono stati prosciolti la madre e il medico che hanno dato la morte al giovane tetraplegico Vincent Humbert.

I fatti: vittima di un gravissimo incidente d’auto, Vincent Humbert, diciannovenne, si sveglia dopo mesi di coma. È tetraplegico, muto e quasi cieco. Riesce a muovere solo il pollice e in questo modo dà dei segnali alla madre Marie, l’unica persona con cui comunica. E le chiede di poter morire.
Una vicenda che avrebbe ispirato Eschilo, Sofocle e Euripide, una «tragedia» che avrebbe dovuto culminare nella catarsi e liberare gli animi dalle passioni attraverso la compassione.

E che invece è stata metabolizzata dagli «organi» dell’informazione e offerta ai fruitori come se, sfrondata dagli inutili orpelli barocchi di una sofferenza che non ha risposte, si riducesse a un concetto solo: l’eutanasia è una battaglia ideologica dei sani, gridata sui giornali. Una battaglia di carta, abile a usare cinicamente le storie giuste.

Forse la «colpa» è del cristianesimo che, sottraendo la morte all’irreparabile dell’individualità che non torna per ridurla a peccato-morte-resurrezione, ha liquidato definitivamente il tragico. Oppure è il riflesso pavloviano di chi non vuole ammettere che l’eutanasia non è «una battaglia ideologica dei sani», ma una possibilità di cui gli uomini, o meglio «i mortali» (nel senso greco del termine) non possono fare a meno perché, come scrive Euripide nelle Troiane: «Il non nascere – dico – è uguale al morire, ma è meglio morire che vivere nel dolore».

Il filosofo latino Lucio Anneo Seneca scrive che «l’uomo saggio vive finché deve, non finché può», e forse questo ammonimento va girato alla medicina.
Come si dice a proposito della ricerca scientifica, non tutto quello che si può fare è lecito fare.
C’è la cronaca, a ricordarcelo. Per fortuna o purtroppo.

Do not resuscitate me

Ci sono domande che, come fiumi carsici, dopo essersi imposte all’attenzione dell’opinione pubblica per un accanimento mediatico che trascolora in un sospetto di voyeurismo, spariscono dalle prime pagine e dai Tg per sprofondare nel sottosuolo dell’indifferenza, dando l’illusione che abbiano avuto una risposta definitiva, o che il problema che esse ponevano sia stato risolto.
Naturalmente non è così. Quelle domande senza risposte continuano a popolare le notti e i giorni di chi non ha bisogno dell’attenzione interessata dei media per ricordare, perché quelle domande se le pone quotidianamente.
Una di queste domande alla quale, in Italia, ci si ostina a non voler dare una risposta è questa: «C’è un diritto alla morte così come c’è un diritto alla vita?».

Il professor Gadamer, noto filosofo morto all’età di 102 anni a Heidelberg il 14 marzo 2002, in una intervista rilasciata a Fermo, Palazzo dei Priori, il 10 aprile 1991 rispose: «Sì! Si ha questo diritto, perché si è uomini liberi e perché lo scopo della terapia medica presuppone la persona; presuppone quindi che si abbia a che fare con un uomo il cui volere deve esser rispettato. In questo senso non mi sembra affatto difficile rispondere alla domanda. Nella prassi diviene però molto più difficile poi ché il morire, l’agonia stessa, è un lento paralizzarsi della libera possibilità di decidere in cui l’uomo vive come uomo consapevole e sano».

Il mistero è un salutare bagno di umiltà che ci riconsegna alla fauna dalla quale cerchiamo incessantemente di prendere le distanze. Una volta svelati tutti i misteri del cosmo resterebbe il più grande dei misteri: perché si nasce e si muore? c’è un senso nella vita? nella morte? Forse rifiutiamo di accettare la più semplice delle risposte: siamo elementi di un ciclo che si rinnova di struggendo. Chi ha creato il ciclo? Diceva un filosofo che è inutile porsi domande che non possono avere risposta.

La morte, la grande assente

Sono un ricatto vivente, uno scomodo memento mori, sono la cattiva coscienza che agita i sonni, sono un ammonimento inquietante per un’umanità convinta di aver conquistato l’immortalità comprando una bustina di integratori, mangiando crusca e yogurt, lavandosi i denti tre volte al giorno, facendosi il check-up una volta all’anno, scopando con due preservativi infilati sull’uccello. insomma quella gente normale che ogni domenica, indossata un’Adidas, corre nei parchi cittadini. Un giro in più e un’altra manciata di anni è assicurata!

Poi arrivo io. E mentre gli rotolo davanti, con le braccia penzoloni e la testa cadente, il loro cuore accelera e anche la loro andatura. Ma la mia immagine gli resta nel cervello, imprigionata come una vespa in un bicchiere capovolto. Zzzzz. zzzz. zzz. e se capitasse a me cosa farei? Zzzzz. zzzz. come si può continuare a vivere in quelle condizioni? Zzzz. zzz. io non ci riuscirei mai. Zzzzz. zzzz. meglio un colpo di pistola! E rassicurati da questa scappatoia, alla prima curva, scattano e spariscono dietro una siepe di mortella.

La morte, o meglio, la volontà di affrontare i problemi che accompagnano la fine della vita, è la grande assente dalle nostre coscienze. L’accanimento terapeutico è cosa che riguarda sempre qualcun altro, il coma è la tragedia che dà pathos a un serial, la perdita dell’autonomia e della dignità che ne consegue è una fisima da depressi. Protetti contro tutto ciò dalle nostre piccole immortalità quotidiane ci avviciniamo, impreparati, a un appuntamento che abbiamo sempre voluto ignorare.

La morte – il nulla, in fondo, non è che una metafora della morte – non è che la condizione della nostra vita, ciò che rende la nostra vita quello che è. È dunque anche la condizione del valore, è ciò che la fa preziosa. La fa preziosa proprio perché è effimera, perché è destinata a tramontare.

Che senso ha parlare di eutanasia mentre siamo impegnati a sconfiggere o circoscrivere un nuovo virus, o quando le tensioni sociali raggiungono livelli di guardia, o in un momento storico che vede venire al pettine tutti i nodi creati dal crollo del muro e dall’offensiva integralista-terrorista?

Perché un lavoratore, preoccupato dai cambiamenti del mercato del lavoro e dalle sfide della globalizzazione, dovrebbe fermarsi a riflettere sul diritto di un malato a essere aiutato a lasciare la vita senza dover vegetare in un limbo dove i termini morte e vita hanno perduto ogni senso comune? Questa ultima domandami riporta alla mente un simile quesito che la sinistra si poneva sul divorzio: “Cosa importa a un operaio del referendum sul divorzio?” Aveva torto, aveva torto perché oltre le battaglie sul lavoro, la casa, la scuola, la previdenza. oltre le mille necessità e aspirazioni, oltre i sogni e le speranze, i piani, oltre il nostro progettare e pianificare il futuro, oltre tutto ciò esiste il destino, il fato. Esiste la nostra fragilità che diventa il denominatore comune degli uomini.

Postille

Ci vorrebbero silenziosi, ci vorrebbero costringere in un ruolo che non ci appartiene, ma noi ci faremo sentire, parleremo con le impersonali voci sintetiche offerteci dalla tecnologia, chiederemo, chiederemo, chiederemo. fino a quando, se non l’assordante silenzio di Dio, cesserà almeno l’ingiustificabile silenzio dell’Uomo.

Com’è difficile vivere e morire in un Paese dove il Governo fa i miracoli e la Conferenza episcopale «fa» le leggi.

 

Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Da Piergiorgio Welby, Co-Presidente dell’Associazione Coscioni

Caro Presidente,
scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile per questo nostro Paese.

Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita.

La giornata inizia con l’allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di pulmocare. Una volta mi alzavo al più tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la mia patologia, la distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario. A mezzogiorno con l’aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire il computer perchè sento una stanchezza mortale. Mi costringo sulla sedia per assumere almeno per un’ora una posizione differente di quella supina a letto. Tornato a letto, a volte, mi assopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio ma la ascolto distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a questa vita. Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi seduto, con l’aiuto di mia moglie Mina e mio nipote Simone. Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa un’ora mi accompagnano a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina.

Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio … è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà.

Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una “morte dignitosa”. No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte.

La morte non può essere “dignitosa”; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia “dignitosa” è un modo di negare la tragicità del morire. È un continuare a muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile per la vita. Ha scritto Eschilo: “Ostico, lottare. Sfacelo m’assale, gonfia fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m’accerchia senza spiragli. Non esiste approdo”.

L’approdo esiste, ma l’eutanasia non è “morte dignitosa”, ma morte opportuna, nelle parole dell’uomo di fede Jacques Pohier. Opportuno è ciò che “spinge verso il porto”; per Plutarco, la morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto e Leopardi la definisce il solo “luogo” dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro.

In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non “esista”: vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa, possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato di pazienti coscienti. Per esaudire la richiesta di eutanasia, alcuni paesi europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto delle procedure che consentono al paziente “terminale” che ne faccia richiesta di programmare con il medico il percorso di “approdo” alla morte opportuna.

Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque. L’associazione degli anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il recente pronunciamento dello scaduto (e non ancora rinnovato) Comitato Nazionale per la bioetica sulle Direttive Anticipate di Trattamento ha messo in luce l’impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasica nel caso in cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche nella diga opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando nell’alveo della tradizione, permettono di intervenire pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con terapie sproporzionate che non portino benefici concreti al paziente. L’opinione pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un famigliare, un amico o un congiunto durante una malattia incurabile e altamente invalidante ed hanno maturato la decisione di, se fosse capitato a loro, non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente.

Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire. Chi condivide, con amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata, desidera la sua guarigione. I medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico della ricerca scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più in avanti nel tempo. Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare per anni. Noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza.

Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che “di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all’eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale”.

Ma che cosa c’è di “naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita e il dolore altrui.

Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente ‘biologica’ – io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico.

Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso il mio corpo malato, di politica, e di obiettivi necessariamente affidati al libero dibattito parlamentare e non certo a un Suo intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come la mia, sono investite da questo confronto.

Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il suo sogno è stato interrotto e solo dopo che è stato interrotto è stato conosciuto. Ora siamo noi a dover sognare anche per lui.

Il mio sogno, anche come co-Presidente dell’Associazione che porta il nome di Luca, la mia volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l’eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi.

Piergiorgio Welby

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